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Inganni d'amore

Fossalta, agosto 1848

Il conte Jacopo di Fossalta tirò bruscamente le redini, rallentando il galoppo del cavallo su per il leggero pendio della collina.

Non riusciva quasi più a sopportare il sordo dolore al fianco. Chiuse per un attimo gli occhi perché un’ombra gli aveva oscurato la vista, e allo stesso tempo si fermò. La ferita non si era ancora rimarginata e lui avvertiva dolorose e profonde pulsazioni. Strinse i denti e aspettò che la leggera vertigine passasse.

Spirava un’aria piacevole e il paesaggio che lo circondava gli trasmise una cauta euforia. Colline a perdita d’occhio, dalla linea dolce e arrotondata, sovrastate da un cielo limpido come il cristallo. Poi respirò profondamente quell’aria inconfondibile, l’aria di casa.

La ferita gli aveva fatto perdere molto sangue e il suo amico Auleri gli aveva proibito di mettersi in viaggio. Ancora qualche giorno, gli aveva detto, il tempo che si rimargini completamente. Ma lui riteneva che il peggio fosse passato ed era quasi fuggito, all’alba, lasciando un breve biglietto all’amico. Adesso però capiva di aver preteso troppo dal suo fisico già provato.

Inarcò leggermente la schiena indolenzita, e pensò che sarebbe stato a Fossalta in meno di un’ora. Solo un’ora, si ripeté per darsi coraggio, e poi Filippo gli avrebbe preparato un meraviglioso bagno caldo. Si sentiva sporco ed esausto. Aveva la barba lunga e i capelli incolti, il suo cameriere avrebbe dovuto darsi da fare per renderlo di nuovo presentabile.

Ma era passato attraverso l’inferno, ed era già molto che ne fosse uscito vivo.

Un breve incitamento e il baio si avviò di nuovo, al piccolo trotto. Anche la sua bestia era stanca, pensò Jacopo, cogliendone l’impercettibile riluttanza ad avviarsi, quindi non avrebbe forzato l’andatura. Tanto più che ogni sobbalzo si ripercuoteva nel profondo della ferita, con spasimi lancinanti.

– Coraggio, amico – disse al cavallo, con un leggero buffetto sul collo. – Riportami a casa e avrai biada a volontà e una stalla comoda.



Quando varcò il grande cancello di ferro sormontato dallo stemma dei conti di Fossalta, Jacopo abbandonò le redini sul collo del cavallo e si aggrappò con forza al pomo della sella. Doveva farcela. Ancora qualche centinaio di metri e sarebbe stato a casa. Strinse gli occhi. Già riusciva a vederlo il suo palazzo, lassù in alto, quasi completamente nascosto dai folti alberi del parco.

Amava Fossalta e la casa in cui era nato, immersa nell’ombra amica degli alti pioppi. Amava le sue terre, ne conosceva ogni palmo, nonostante si estendessero a perdita d’occhio. Conosceva uno per uno i suoi fittavoli e i suoi servi, sapeva di chi potersi fidare e chi tenere a distanza, si era sempre occupato personalmente dell’amministrazione. Adesso non vedeva l’ora di riprendere in mano quello che aveva dovuto abbandonare cinque mesi prima. Suo zio Filiberto era un buon uomo, ma non era certo in grado di gestire con la determinazione necessaria quegli enormi possedimenti. Aveva acconsentito a occuparsene affermando che si sarebbe limitato a seguire le istruzioni di Jacopo, tanto la tenuta era talmente florida che avrebbe quasi potuto condursi da sola. Che suo nipote andasse pure a combattere per gli ideali, se era talmente pazzo da volerlo fare, lui avrebbe pensato al resto.

Sono a casa, si ripeté Jacopo, ormai completamente curvo sul cavallo, il viso a pochi centimetri dalla sua criniera. C’erano alcuni giardinieri lungo il viale che conduceva al palazzo. Come in sogno, lui li vide interrompere il lavoro e guardare nella sua direzione. Fermi e immobili, come impietriti. Di certo non l'avevano riconosciuto.

Jacopo pensò di chiamare qualcuno perché lo aiutasse, ma non riuscì a trovare la voce. Madido di sudore gelato, stava scivolando lentamente, ma inesorabilmente sul collo del suo cavallo.

Riaprì gli occhi, perché si era nebulosamente reso conto di essere fermo.

Era così, infatti. Il baio si era arrestato ai piedi della scalinata che conduceva al grande portone d’ingresso. Udì uno scalpiccio di passi sulla ghiaia, poi due mani forti lo tirarono giù dalla sella e lui sentì la faccia premere contro un torace ampio e duro. - Buon Dio, siete voi, padrone?

Aprì di nuovo gli occhi e vide il viso scuro di sole di Savino, lo stalliere. Capì che stava per perdere conoscenza e con un terribile sforzo di volontà si raddrizzò. - Aiutami a salire le scale - disse.

L’uomo rimase immobile, come se non avesse udito. Il suo braccio continuava a sorreggerlo per impedirgli di perdere l’equilibrio. – C’è qualcosa che dovete sapere, padrone - affermò poi, dopo una lunga pausa.

Jacopo sbatté le ciglia e inaspettatamente il mondo tornò nitido intorno a lui. Si liberò del braccio di Savino. - Dopo. Adesso voglio solo andare a casa.

Mosse qualche passo verso la scala e salì senza incertezze i gradini. Dopo un istante di esitazione, lo stalliere si affrettò a seguirlo. - Piano, padrone. Siete debole.

Jacopo era già alla porta e picchiò sul legno il pesante batacchio di ottone. Un attimo dopo la porta si aprì e apparve l‘imponente figura di Anselmo, nella sua livrea verde. L’espressione dell’uomo si irrigidì, un misto di stupore e di incertezza.

- Non mi riconosci, Anselmo? Sono io - disse Jacopo, scostandolo leggermente col braccio ed entrando nell’enorme atrio rilucente di marmi. Era a casa. Aveva bisogno di una poltrona e di una bevanda fresca.

Una ragazza stava scendendo di corsa la grande scalinata che conduceva, con un’ampia voluta, al piano superiore. Si fermò di colpo quando si accorse di lui. Jacopo mise a fuoco due grandi occhi interrogativi, sottili sopracciglia inarcate, e una folta massa di capelli color inchiostro, poi un’ondata di nausea lo assalì.

- Savino - articolò. - Accompagnami di sopra. - E poiché l’uomo non si muoveva, sollevò una mano con gesto impaziente: - Dannazione, dammi il braccio. Non voglio spaventare la mia ospite, stramazzando ai suoi piedi. E che qualcuno chiami Filippo. Ho bisogno subito di lui.



Un vagabondo senza alcun dubbio, dedusse Lucrezia Neri dando un rapido sguardo alla figura ingobbita dell’uomo che le stava davanti. In ogni caso un tipo poco raccomandabile. Capelli in disordine, guance ispide, abiti sporchi e stazzonati, la ragazza si chiese come mai avesse osato presentarsi alla porta principale. Mendicanti e vagabondi, di solito, bussavano all’entrata di servizio, sperando nel buon cuore della cuoca Giovanna.

Poi incontrò gli occhi dell’uomo e per un attimo trattenne il respiro. Erano cupi e infossati, vitrei per il dolore, e la stavano fissando senza vederla.

Quell’uomo stava molto male, realizzò Lucrezia all’istante. E probabilmente era in pieno delirio, dal momento che continuava a impartire ordini in casa sua.

La ragazza si guardo intorno, indecisa sul da farsi. Le espressioni sbigottite di Anselmo e dello stalliere non le furono d’aiuto. Cosa diavolo stava accadendo? Quei due uomini grandi e grossi sembravano spaventati dalla presenza di un vagabondo che di sicuro, per le condizioni in cui era, non sarebbe riuscito a far del male a una mosca.

- Portate quest’uomo nell’ala della servitù – ordinò in fretta, decidendosi ad affrontare la situazione. – Dategli da mangiare e da bere. Credo anche che abbia bisogno di un medico… - Le parole le morirono in gola, perché il vagabondo aveva fatto un passo avanti, fissandola con occhi furiosi e febbricitanti.

- Cosa diavolo state dicendo? - l’affrontò, con voce scandalosamente alta, dal momento che si stava rivolgendo a una signora. - E perché, dannazione, impartite ordini in casa mia?

Lucrezia rimase immobile e decise che non avrebbe distolto lo sguardo da quello decisamente minaccioso di lui. - E’ per l’appunto ciò che stavo per chiedervi, signore - replicò, in tono basso ma sufficientemente chiaro. - Siete voi che state impartendo ordini nella mia casa e alla mia servitù. Siete in grado di spiegarmene il motivo?

Brano scelto e adattato dall'autrice
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