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Poker di delitti - II parte

di Ornella Albanese
Romanzo breve
pubblicato su GIOIA

Helen Jarret era stata uccisa da un ladro che aveva portato via parte dei suoi gioielli. Qualcuno era entrato in casa, aveva frugato nella camera da letto, era stato sorpreso dalla donna e l’aveva uccisa con un colpo di pistola.

Era stato tutto troppo facile e scontato, ma le cose troppo facili non convincevano Remick. A parte il fatto che tre morti violente in pochi giorni erano sufficienti a renderlo furioso. Tre morti violente tra cui un suicidio che poteva non essere un suicidio.

- Anche questo ladro provvidenziale ha finito per rendere un grosso favore al marito della donna – disse Remick a Bennet e la sua voce fremeva d’impazienza.

Cecil Jarret stesso lo aveva affermato con la massima naturalezza. La moglie si era sempre opposta al divorzio e ora, improvvisamente, lui era libero di sposare la donna con la quale aveva una relazione da molto tempo.

- Una donna incantevole, mi creda – aveva detto serio. – Con mia moglie ero sposato da più di trent’anni, abbiamo messo i capelli bianchi insieme, ma il nostro non è mai stato un rapporto felice.


- Cosa diavolo succede in questa dannatissima città? – si sfogò Remick con Gena, quella sera. Era molto teso e le cicche si erano ammucchiate nel posacenere.

- Può darsi che qui intorno giri un killer – scherzò Gena. – E che uccida la gente su commissione.

- Un killer dici? – Remick la guardò perplesso. – Un killer qui?

- Scherzavo, naturalmente.

- Un killer potrebbe essere la soluzione. Lui uccide, gli interessati si procurano un alibi di ferro e noi ci perdiamo la testa.


Passò più di una settimana senza che accadesse nulla di nuovo. La stampa non dava tregua alla polizia, qualche indiscrezione era trapelata e un giornalista insinuava che il suicidio poteva essere stato in realtà un assassinio.

- Sono esausto – disse Remick a Gena. Erano a casa della ragazza, lui sedeva sul divano e Gena gli stava rannicchiata accanto. Era difficile che Remick si lasciasse andare e invece lei adorava quei rari momenti di abbandono che lasciavano trapelare fragilità insospettate.

- E’ difficile essere sempre in prima linea. Il mio è un mestiere che ruba ogni minuto, che non lascia spazio ad altro. E’ un mestiere per uomini soli. Qualsiasi rapporto un po’ più stabile è destinato a fallire – disse Remick con amarezza.

- Qualsiasi rapporto superficiale, direi – lo corresse Gena. – E certo la tua donna deve essere forte e soprattutto indipendente. E poi deve amarti molto perché penso che non sia facile viverti accanto.

Remick sorrise. – E’ il tuo identikit questo? – chiese, baciandola. – Deve anche essere alta, bionda e con un piccolo neo sulla guancia?

Anche Gena rise, poi lo guardò negli occhi e i suoi avevano uno strano bagliore. – Mi sembra che ci sia dell’inquietudine in te, Bruce, e questo significa che ti manca qualcosa. Non credo che il lavoro riesca a riempire da solo la vita di un uomo.

- Ti sbagli. – Il suo tono era cambiato, come se lui avesse già superato quell’attimo di smarrimento. – Quello che ho mi basta.

poker di delitti

- Ma sei felice? – insisté Gena.

- Felice? La felicità non è obbligatoria, mi sembra.

Lei lo guardò furente. – Detesto i superuomini – disse. - Trovo i comuni mortali molto più interessanti.

Gli occhi di Remick scintillarono nella risata. – Io invece adoro ogni tipo di donna. Ma te più di tutte le altre.

Gena si lasciò baciare, chiusa nel cerchio forte delle sue braccia.


Remick entrò nella stanza. Inge Polten era distesa sul letto con la testa piena di sangue e un lembo del lenzuolo pressato in bocca. C’erano segni di lotta intorno a lei, la leggera camicia era strappata e il corpo seminudo pieno di graffi.

Remick osservò il pesante posacenere che era servito come arma e poi si rivolse alla ragazza che aveva telefonato in centrale. – Ha sentito qualcosa? Ci deve essere stato molto rumore qui dentro, stanotte.

- No, o almeno non ci ho fatto caso. Inge aveva spesso amici in casa e allora i rumori erano frequenti.

- Eravate molto amiche?

Lei gli sorrise scuotendo la testa. – No, solo un po’. Siamo vicine di pianerottolo e abbiamo più o meno la stessa età. Di solito si finisce col fare amicizia anche se lei è un tipo… cioè era un tipo chiuso, un po’ freddo. Insomma, una chiacchierata ogni tanto, niente di più. Questa mattina mi sono insospettita perché la porta era accostata.

- Aveva un uomo? Oppure un amico che vedeva più spesso degli altri? – chiese Remick, osservando una foto della ragazza su una mensola.

- Non direi. Frequentava un po’ di gente, ma nessuno in particolare. Deve ancora avere un marito da qualche parte, in Germania.

- Anche qui c’è stato uno strano furto – osservò Bennet, avvicinandosi. – Hanno aperto i cassetti e non si sono accorti della cassaforte.

- Una cassaforte? Fa vedere.

Nella cassaforte c’erano documenti, una forte somma di denaro e una busta gialla.

Quando Remick l’aprì trovò un foglio e sul foglio c’era scritto con caratteri forti:

Blick in der Nacht no. 19 /1999 no. 23/2000 no.5 e 31/2001

- Cos’è questa roba? – chiese Bennet.

- Sono numeri di giornali, immagino. Riviste tedesche.


Non ci volle molto per rintracciare i giornali. Erano riviste per soli uomini e Remick si ritrovò a sfogliare pagine piene di donne nude dai seni abbondanti e dagli sguardi banalmente seduttori. In quei giornali doveva esserci qualcosa di molto importante, probabilmente si trattava di un ricatto.

La Polten aveva un tenore di vita piuttosto alto, non lavorava e non risultava che qualcuno la mantenesse.

Poi Remick riuscì a trovare il denominatore comune delle quattro riviste e qualcosa cominciò a chiarirsi nel buio totale di quel delitto.

Le donne nude sembravano tutte uguali o quasi, ma alla fine Remick realizzò che una, soltanto una, appariva nei servizi fotografici di tutte e quattro le riviste. Una ragazza bionda col viso spavaldo e il corpo perfetto.

Le informazioni su di lei arrivarono in fretta. Era Greta Finch, una ragazza di provincia,che aveva fatto quel lavoro per qualche anno prima di partire per gli Stati Uniti. Dove aveva conosciuto e sposato il noto uomo politico James Rathbone.

In più questa volta c’era qualcosa di concreto: due corti capelli bianchi trovati dai ragazzi della scientifica sotto le unghie della donna, ovviamente strappati all’assassino durante la lotta.


Greta Rathbone aveva lo stesso viso spavaldo della ragazza sui giornali e probabilmente lo stesso corpo, sotto l’elegante abito di seta.

- Sì, quella donna mi ricattava – ammise con tono freddissimo. – Ma avrà fatto la stessa cosa anche con altri, sembrava una professionista del ramo.

- Lei ha pagato?

- Sicuro. Ben tre volte e sempre somme di una certa entità. Sono in una posizione tale da non potermi permettere leggerezze. Mio marito sarebbe molto danneggiato da uno scandalo.

- Suo marito ne è al corrente?

- No, è ovvio. Non mi avrebbe sposata, se avesse saputo di quelle foto.

E poi lui ha capelli vistosamente neri, rifletté Remick.

Il tenente si guardò intorno nello sfarzoso salone dei Rathbone e pensò che in nessun caso una famiglia così potente e così in vista avrebbe risolto quella squallida storia in prima persona.

- Vedo che siamo i principali indiziati – affermò Greta Rathbone con una certa enfasi. – Come mai non ha ancora voluto conoscere i nostri alibi, tenente?

Remick ne aveva fin sopra i capelli di alibi inattaccabili, senza contare che quei capelli bianchi escludevano i coniugi Rathbone. Così serrò le mascelle e si congedò dalla signora con modi perfetti da gentiluomo. Ma era proprio fuori di sé. Quattro casi irrisolti, a suo parere, erano davvero troppi.

Forse è bene che me ne vada a dirigere il traffico, pensò con rabbia, invece di ostinarmi a giocare al poliziotto infallibile.

In quel momento si sentiva tutt’altro che infallibile. Non faceva che pensare, pensare e pensare, ma gli sembrava di dibattersi in un’enorme ragnatela. Il fatto di esaminare quelle quattro morti nel loro complesso, comunque, lo rendeva psicologicamente predisposto a trovare un legame, qualcosa che le accomunasse. Era su quell’idea che si intestardiva, pur non essendoci nulla di concreto a suggerirgliela. Remick aveva in mano solo due indizi molto vaghi: i bicchieri preziosi di Peter Craig e i due capelli bianchi sotto le unghie della tedesca. Gli assassini non avevano lasciato altre tracce, nessuno li aveva visti né sentiti, avevano agito con sicurezza e rapidità. Come dei professionisti. Forse solo l’ultimo assassino aveva commesso un errore. A meno che non fosse stato un omicidio non voluto, con coinvolgimenti passionali, nessuno pensa di uccidere una persona fracassandole il cranio. L’assassino doveva aver perduto la testa e colpito a caso col primo oggetto a portata di mano.

Ecco, era su di lui che Remick doveva concentrarsi. Un uomo a cui sono saltati i nervi è possibile che abbia commesso altri errori. Intanto era stato l’unico a lasciare una traccia: i due capelli bianchi sotto le unghie della donna.


Gena era allegrissima e la sua allegria servì a distrarlo da quei pensieri che ormai erano diventati ossessivi. Erano andati a cena in un ristorante giapponese e lei gli stava raccontando la sua giornata con quella voce leggera e musicale che a Remick piaceva tanto.

- E così, una parola dietro l’altra, è venuta fuori una bella litigata. E per una stupidaggine davvero. Non avevo mai visto Steve Craig trascendere in quel modo, il povero Jarret aveva gli occhi fuori dalle orbite.

Remick si raddrizzò sulla sedia subito attento. – Jarret chi? Chi aveva gli occhi fuori dalle orbite?

- Cecil Jarret. Era al Golf Club con la sua nuova donna e aveva un’espressione molto felice. Prima della discussione, naturalmente. Dicono che sua moglie fosse tremenda, ma esibire l’altra sua donna a così pochi giorni dalla morte mi sembra una totale mancanza di stile. E anche di morale.

Remick sembrava riflettere. – Non sapevo che quei due si conoscessero – disse.

- La nostra non è poi una città così grande – gli fece notare Gena. – E in un certo ambiente ci si conosce tutti.

Ecco su cosa devo lavorare, decise Remick.


Il giorno dopo Remick sapeva che Cecil Jarret, oltre a frequentare gli stessi campi da golf frequentati da Steve Craig, era anche iscritto allo stesso ciclo di conferenze seguito da Malcom Powell.

Quella notte Remick non dormì. La sua era un’idea assurda, ma visto che non c’era nulla di razionale su cui lavorare, vi si soffermò con pignoleria.

Su un blocco aveva cercato di visualizzare le situazioni. Aveva scritto i nomi delle vittime, i nomi di quelli che avevano tratto maggior vantaggio dalle morti, e gli indizi a disposizione:


Peter Craig Steve Craig bicchieri di cristallo forse donna
Amos Lee Malcom Powell
Helen Jarret Cecil Jarret
Inge Polten I Rathbone due capelli bianchi

La mattina dopo Remick aveva la testa in fiamme, la gola bruciata dal fumo e una soluzione che non poggiava su alcuna prova. Doveva essere lui a escogitare qualcosa che desse credibilità alla sua idea. Ma doveva agire con cautela e astuzia.


Cecil Jarret entrò nell’ufficio di Remick con aria seccata.

- Questa storia durerà ancora a lungo, tenente?

- Si segga – disse Remick. Sembrava indaffarato a consultare certe carte e lo lasciò in attesa per qualche minuto. Alla fine si rivolse a lui con tono professionale.

- Allora, signor Jarret, vuol parlarmi del suo alibi?

Lo sguardo dell’uomo si fece di fuoco. – Sta scherzando, tenente? Mi fa venire fin qui per una cosa che ho già detto e ripetuto? Mi dispiace, ma non ho abbastanza senso dello humour da riderci su.

- Sbaglia, è la prima volta che le rivolgo questa precisa domanda. Voglio sapere cosa ha fatto la sera di venerdì scorso, diciamo dalle nove a mezzanotte, cioè quando è stata presumibilmente uccisa la signora Inge Polten.

Il viso di Jarret sembrava di marmo. –Inge Polten? – balbettò. – E chi è? Non so neppure chi sia.

- Allora cercherò di essere più chiaro. – Remick aprì un cassetto e prese due buste trasparenti. Poi, con una pinzetta, estrasse da una dei capelli bianchi. – Questi sono i capelli trovati sotto le unghie della Polten – disse. – E nell’altra busta, vede?, c’è un capello che ho preso dalla sua giacca, mentre l’accompagnavo alla porta.

Adesso il viso di Jarret era grigio e i suoi occhi vitrei. Remick acquistò sicurezza.

- Gli esami di laboratorio hanno dimostrato che appartengono alla stessa persona. Non le resta che confessare.

E Jarret lo fece. Con faccia inespressiva e occhi fissi nel vuoto.

- Io non volevo più, ma il gioco si era spinto troppo avanti. Loro mi hanno costretto. Dovevo farlo molto prima, ho dovuto aspettare più di una settimana per trovare il coraggio. A parole era molto più facile e poi l’alcool rende temerari. Eravamo tutti d’accordo e tutti sono andati fino in fondo, io ero il solo a volermi tirare indietro. Ma intanto mia moglie era già stata uccisa, dovevo tener fede al patto.

Remick annuì. La sua idea assurda non lo era poi così tanto. Quattro persone si erano incontrate e avevano deciso di allearsi per realizzare quattro delitti perfetti.

- Non ci conoscevamo tutti. Soltanto io e Steve Craig,e solo per esserci incrociati qualche volta al Club. Ma una sera, due mesi fa, ci siamo trovati seduti per caso intorno allo stesso tavolo da poker. Era notte tarda e avevamo bevuto. Aveva cominciato il giovane Craig a parlare. Sperava che suo zio morisse in fretta per poter disporre del suo patrimonio. Si era cacciato in un brutto guaio con un prestito che non riusciva a restituire. E’ vecchio, diceva, prima o poi se ne andrà all’altro mondo. Perché non adesso? Pian piano abbiamo scoperto che ciascuno di noi avrebbe volentieri eliminato una persona che minacciava la sua vita. Non mi ricordo a chi sia venuta l’idea, ma sembrava così facile. Bisognava solo far passare del tempo da quella nostra partita a poker e non farci mai più vedere insieme. Insomma, era veramente facile e stava andando tutto bene… sono stato io a rompere il ritmo, ero spaventato, non volevo più. Mi hanno procurato un duplicato della sua chiave di casa. Avrei dovuto soffocare la Polten nel sonno, con un cuscino, invece ho fatto rumore, lei si è svegliata e abbiamo lottato, si divincolava, ho perso la testa. E’ stata una cosa orribile, tutto quel sangue. – Jarret era madido di sudore. – La signora Rathbone sapeva che la Polten aveva in casa della roba che la comprometteva. Io avrei dovuto cercarla, era un piccolo appartamento, non ci avrei messo molto. Invece non ce l’ho fatta. Ero sconvolto. E poi avevo paura che i vicini avessero sentito qualcosa. Ho aperto un paio di cassetti e poi sono scappato via. Gli altri erano furibondi. La signora Rathbone specialmente. Perché la polizia avrebbe di certo trovato quel materiale e allora tutto sarebbe stato inutile.

Cecil Jarret firmò la sua confessione e rimase lì, abbandonato su una sedia, come inebetito. La voce di Remick, che si rivolgeva al suo aiuto, gli giunse come attraverso una fitta nebbia.

- Vuoi indietro i tuoi capelli, Bennet, o posso gettarli via?

Poi, senza aspettare la risposta, strappò le buste che contenevano la prova decisiva e le lasciò cadere nel cestino.

Jarret rimase immobile lunghi istanti, quasi si rifiutasse di recepire, poi scrollò le spalle e cominciò a piangere piano, con piccoli singhiozzi.


E così Greta Rathbone ha ucciso il vecchio signor Craig? – chiese Gena cercando di ricapitolare. – Spiegami bene perché questa brutta storia è troppo complicata.

- Sì, l’ha ucciso con del veleno. E poi Steve Craig è andato da Amos Lee col pretesto di una consulenza, gli ha sparato in faccia e ha fatto in modo che sembrasse un suicidio.

- E poi? La terza a morire è stata la povera signora Jarret.

- Se n’è occupato Malcom Powell, simulando il furto. Il marito di Helen gli ha dato le chiavi di casa, allora lui è entrato, ha sorpreso la donna e le ha sparato con una rivoltella munita di silenziatore.

- E’ una storia pazzesca! – esclamò Gena, scuotendo la testa. – Gli altri così hanno avuto tutto il tempo per procurarsi degli ottimi alibi.

- Davvero inattaccabili. Per fortuna Cecil Jarret ha commesso un errore. Deve essersi reso conto che uccidere qualcuno non è poi così facile come progettarlo intorno a un tavolo da poker, con la mente esaltata dall’alcool.

- E’ una storia pazzesca – ripeté Gena, ancora incredula. – E non so come tu abbia fatto a capirci qualcosa.

Remick si abbandonò sui cuscini del divano, finalmente rilassato, la tensione di giorni e giorni completamente dissolta.

- Ho lavorato di fantasia – le spiegò semplicemente. – Non avevo niente di concreto, quindi non mi restava che la fantasia. Per puro caso, ha coinciso con la realtà. E poi… - Si interruppe e i suoi occhi cercarono quelli di Gena.

- E poi cosa? – lo sollecitò lei.

- E poi – disse Remick con voce forte e chiara – sono proprio innamorato di te.

E mentre la stringeva forte tra le braccia, pensò che se si amava sul serio, non era poi così difficile pronunciare frasi d’amore.

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