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Il falco e la rosa

Il principe delle tenebre



Firenze, 1523

Come poteva dare trasparenza agli occhi?

Celeste Martini si morse leggermente il labbro, assorta. Forse un po' di bianco d'argento, decise. Appena una pennellata di luce.

Intinse la punta del pennello nella cremosità di un bianco dalla sfumatura perlata e rese liquido lo sguardo di monna Lucrezia. Bene. E adesso doveva lavorare sulla profondità di quegli occhi.

Fece un passo indietro per osservare il quadro dalla giusta distanza. La luce della candela regalava sfumature dorate all'ambiente intorno a lei, e anche al dipinto. Quel tenue chiarore indorava la tela e raggiungeva la sua tavolozza, suggerendole colori caldi e ambrati. Celeste dipingeva a memoria, non poteva permettersi una modella. E, sopra tutto, dipingeva di nascosto.

All'alba avrebbe messo il suo lavoro al sicuro, nel fondo di una vecchia dispensa utilizzata per le tele che dovevano essere ancora trattate con la biacca. Poi se ne sarebbe tornata a casa in fretta, prima che Andrea arrivasse ad aprire la bottega. Era già stata una fortuna incredibile riuscire a varcare quella soglia per imparare l'arte dal maestro che non sbagliava mai, Andrea del Sarto.

Per molto tempo aveva insistito e supplicato, ma inutilmente. - Non voglio sottane nella mia bottega – ringhiava lui, non appena la vedeva ferma sulla soglia. Aveva due collaboratori ed entrambi di grande bravura, il Pontormo e il Rosso, non voleva complicarsi la vita con una femmina. Finché una volta si era infuriata: - Se fossi un uomo e non sapessi neppure tenere un pennello in mano, sono sicura che ci pensereste un attimo, prima di dirmi di no. Sono più brava di tanti uomini, eppure devo pagare lo scotto di essere donna!

Andrea l'aveva guardata con occhi temibili, ma poi gli era scappato un mezzo sorriso. - La tua presunzione è pari a quella del più presuntuoso degli uomini – disse. - E questo è un punto a tuo vantaggio. Rimarrai nella mia bottega affinché tu capisca che devi essere cento volte più brava di un uomo, perché ti venga riconosciuto. Ci vogliono fatica e sudore. E la tua superbia va trasformata in umiltà.

- Fatica e sudore non mi spaventano – aveva detto lei, cercando di non far trasparire il trionfo dalla voce.

L'uomo aveva scosso la testa. - Non so. Sei troppo ribelle per poterti sottomettere alla durezza dei miei insegnamenti.

- Mettetemi alla prova – lo aveva sfidato.

Per un anno Celeste aveva dipinto sfondi e arredi. Seggiole, tavoli, finestre, gradini. Degli alberi solo i tronchi perché per le foglie occorreva una particolare maestria.

Poi era passata ai panneggi. Un intero anno di panneggi: tende, abiti, mantelli, gualdrappe di cavalli. Di pesante velluto, di tessuto leggero, agitati dal vento o immobili come quelli delle statue. Se era fortunata, si trattava di tuniche che lasciavano appena intravedere le linee dei corpi. Se c'era un decoro, lei preparava lo sfondo e poi osservava con invidia i suoi compagni che dipingevano tralci di fiori o ricami di perle. Avrebbe dato la vita per lavorare a uno di quei decori, ma naturalmente non lo lasciava capire.

Il terzo anno era stato l'anno dei piedi. Nudi o calzati, piedi di uomini, di donne, di bambini o di angeli, piedi magri, tozzi, paffuti, dritti, piegati, piedi candidi, rosei, bruniti dal sole, lividi di morte. Centinaia di piedi senza mai protestare, senza mai lasciarsi sfuggire un sospiro di impazienza. Ma dentro il suo cuore, tutto ribolliva e urlava. Aveva la mente piena di soggetti bellissimi, sapeva in che modo avrebbe mescolato e dosato i colori, conosceva a memoria tutti i gesti che servivano per dipingere un viso, sapeva già come rendere sulla tela il buio che si sovrappone alla luce o la luce che cede al buio, sapeva come rendere più forti i contrasti, più dolci le albe, più foschi i temporali, più impetuoso il vento, le sarebbe stato facile dare vita all'argento degli olivi, al cupo velluto delle querce, al verde traslucido delle foglie di vite... e sapeva che le toccavano i piedi. Dentro di lei c'era una belva che ruggiva. Si sentiva impotente e frustrata. Avrebbe dipinto il mondo e doveva concentrarsi sull'unghia di un alluce.

- Più perlata quell'unghia, Celeste!

Lei intingeva appena il pennello nel carminio, disperdeva quel piccolo grumo nel bianco, aggiungeva un'ombra di terra e l'unghia appariva persino più reale di quella dell'uomo che stava posando per loro.

Brano scelto e adattato dall'autrice
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